
Nati negli Iuessei - tre decenni di musica per orchestra di fiati
“Ho visto le menti
migliori della mia generazione […]
che passavano per le università con occhi freddi radiosi […]
che venivano espulse dalle accademie come pazzi […]
che cantavano disperate dalle finestre […]
che si alzavano reincarnate all’ombra dorata degli strumenti della band
e soffiavano per amore la sofferenza dell’America in un urlo di saxofono”
(Allen
Ginsberg, Urlo, 1956)

I Brani
Prendendo le mosse dalle forme
codificate per la musica sinfonica (ouverture da concerto, suite
sinfonica di danze, sinfonia, poema sinfonico, concerto solistico,
variazioni per orchestra), dalla seconda metà dello scorso secolo è
fiorito un gran numero di composizioni originali per orchestra di fiati
e percussioni con partiture che coprono un ampio raggio di durate e
complessità: dai brani di studio fino a quelli da concorso e concerto
pubblico.
L’ambiente che più ha favorito tale
sviluppo, influendo anche in modo significativo sulle caratteristiche
generali delle musiche, è stato quello delle high school e università
statunitensi. Alla base, una solida preparazione accademica, associata a
una “specialistica” conoscenza delle possibilità degli strumenti a fiato
e delle percussioni, cosa non così semplice né pacifica in un’epoca che
ha visto una grande evoluzione nella formazione degli strumentisti e
nelle tecniche esecutive, per non parlare degli strumenti stessi.
Insieme, la capacità di definire, da parte di ciascun autore, una
propria “cifra” personale ben identificabile, con un dosato mix tra
tradizione e tecniche compositive e strumentali innovative, con
attenzione alla “confezione” finale, di cui fanno parte non solo
elementi musicali (colti o popolari, etnici o internazionali), ma anche
extramusicali con la stessa “voracità” hollywoodiana per tutto quello
che può offrire “storie” da raccontare al pubblico. Una “cifra”
personale fondamentale anche in vista delle commissioni da parte delle
orchestre (militari o educational).
Insomma, un mondo vivo, anche se in
certa misura autoreferenziale: perché con una naturale tendenza ad
“autoalimentarsi”, sia attraverso il ciclo della formazione (lo studente
“bravo” diventa compositore e direttore), che delle commissioni
(incaricanti e incaricati “sanno” che cosa si attende la controparte …),
che della delimitazione dei generi e delle competenze (una concert band
può suonare ritmi jazz ma non deve “suonare come” una jazz band …).
Infine, si può ricordare quello che
fece notare Aaron Copland: il lavoro dell’artista americano spesso
consiste semplicemente nel rendere l’arte possibile, vale a dire
garantirne la visibilità; un lavoro che ogni generazione deve
ricominciare ogni volta da capo.

Scrive
Franck Ticheli:
«il Vesuvio, vulcano che distrusse
Pompei nel 79 dC, è un’immagine di
potenza ed energia. Inizialmente avevo
pensato a una danza selvaggia e
appassionata, come quelle di un
baccanale dell’antica Roma. Procedendo
nella composizione, ho cominciato a
immaginare qualcosa di più esplosivo ed
infiammato. Con i suoi ritmi
coinvolgenti, i modi esotici e la
citazione del Dies iræ, il Baccanale che
stavo scrivendo poteva rappresentare una
danza per gli ultimi giorni della
condannata città di Pompei». Gli
aggettivi con i quali la stampa
americana ha definito la musiche di
Ticheli (“ottimistiche e meditate; agili
e muscolari; brillantemente efficaci”)
ben descrivono anche Vesuvius, breve
poema sinfonico nei cui 5 episodi
concatenati (introduzione; danza in
ritmo irregolare che conduce attraverso
il tema del Dies iræ alla “cantilena”
lenta; sovrapposizione in tempo rapido
degli elementi precedenti; coda con
ripresa della danza) il gusto
“spettacolare” pone in netto subordine
eventuali intenzioni “drammatiche”.
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Nelle sue 4 sinfonie (l’ultima è del
1994),
Alfred Reed
sceglie sempre un’articolazione in tre
movimenti, tipica degli esempi del primo
classicismo. Non si tratta di un
richiamo stilistico quanto piuttosto del
convergere di due distinte esigenze:
movimenti brevi e caratteristici (come
quelli derivati da minuetti e scherzi)
possono provocare non desiderabili
evasioni dal tono “alto” che si
presuppone in una sinfonia (mentre
sicuramente trovano collocazione
adeguata nel genere, di grande successo
per Reed, delle suite). Il contenimento
della durata della composizione è poi
un’utile accortezza circa la …
resistenza fisica di esecutori e
ascoltatori.
La Terza Sinfonia, commissionata dalla
banda dell’aviazione USA, si apre con
un’introduzione lenta e pensosa (pesante
e molto sostenuto) che conduce, dopo un
esteso solo di oboe, all’allegro agitato
il cui carattere drammatico viene solo
parzialmente contrastato da un episodio
di imitazioni tra alcuni legni soli e da
un momento più disteso di oboe e corno
inglese prima di una stringata e
altrettanto decisa coda.
Il movimento centrale è basato su un
enigmatico tema di 13 battute che
Richard Wagner iniziò all’epoca del
Tristano (1858) ma completò solo nel
marzo 1882 quando, terminata la
composizione del Parsifal, era ospite a
Palermo del palazzo Gangi in piazza dei
Porazzi (da cui il nome). Secondo la
testimonianza di Cosima Liszt sarebbe
stata anche l’ultima musica che Wagner
suonò al pianoforte la notte prima della
morte (a Venezia nel 1883). Dopo
l’esposizione del tema (oboe), diviene
protagonista il clarinetto. La tavolozza
orchestrale si basa prima sui legni per
coinvolgere da protagonisti gli ottoni
nella seconda “variazione”, con un
progressivo ispessimento della
strumentazione, fino alla ripresa del
tema e a una chiusa in tonalità maggiore
che “rischiara” come in dissolvenza il
registro cromaticamente elegiaco del
brano.
Dopo l’omaggio a Wagner, il finale, col
suo “deciso” spirito di marcia, sembra
invece un omaggio a Paul Hindemith (la
cui Sinfonia in si bemolle del 1951 è
uno dei primi brani “moderni” per
banda). Del tutto personale è però la
conclusione, con l’inserimento di un
solo di oboe e legni prima della
“gloriosa” chiusa.
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Come
scrive
Dana Wilson, «Piece
of mind è un gioco di parole su un
vecchio modo dire, ma anche una
rappresentazione di come opera la mente
umana [“Give a piece of mind” significa
dire candidamente a qualcuno che cosa si
pensa di lui; ma "piece" è anche un
“pezzo” di musica, quindi un brano di
musica “sulla mente”. Inoltre, la
pronuncia di "piece" è la stessa di "peace"
(pace). Il primo movimento, "Thinking"
(pensare), inizia con una semplicissima
idea di quattro note che cresce
apparentemente in base alla propria
inerzia – come capita spesso pensando a
qualcosa – mescolandosi o facendosi
travolgere da altre idee correlate. "Remembering"
(ricordare), il secondo movimento, è
strutturato in modo simile a come la
memoria funziona per la maggior parte di
noi – non un pensiero completo e logico,
ma improvvisi flash di immagini o
dialogo; in questo caso i flash
illuminano l’idea di quattro note
attraverso vari stili musicali
vividamente radicati nella memoria del
compositore e, si spera, di molti
ascoltatori. Il terzo movimento,
"Feeling" (emozionarsi), esplora vari
stadi dello spettro emozionale, la cui
interpretazione è meglio lasciare
all’ascoltatore. Il movimento
conclusivo, "Being" (essere), fa
riferimento a uno stato mentale
raramente considerato nella nostra
cultura: stili musicali non occidentali
– in particolare indiani – sono
utilizzati per dar forma all’idea
musicale di quattro note in modo da
ricreare e celebrare quel meraviglioso
attributo (piece, peace …) della mente».
La presentazione concettosa potrebbe far
pensare a un brano di … difficile
digestione; in realtà gli aspetti
“sperimentali” sono ben inquadrabili nel
genere delle libere variazioni o
“metamorfosi” sinfoniche e l’autore
mantiene una chiara direzionalità dei
materiali musicali. Il primo tempo
procede per accumulazione; il secondo
utilizza l’idea principale come “fascia
sonora” sopra la quale passano le
“intrusioni” degli altri stili musicali;
più complesso il terzo movimento, che
muove da un accompagnamento e da soli
che si intrecciano (a partire dal corno)
in modi “neobarocchi” per raggiungere
una climax a cui segue un ampio solo di
sax soprano fino a concludersi in
dissolvenza con le tastiere. L’ultimo
tempo sembra contraddire l’iniziale
clima new age (solo di corno inglese)
con un episodio giocoso dei legni e
l’irrinunciabile momento virtuosistico
che però si conclude improvvisamente e
in modo “sospeso”.
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Come
nella lisztiana “Sinfonia Dante”, le tre
sinfonie per fiati e percussioni di
Robert W. Smith
uniscono il genere della sinfonia a
quello della “musica a programma”,
facendo riferimento ad altrettanti
capolavori della letteratura universale:
nell’ordine, la Divina commedia (appunto
…), l’Odissea e il Don Chisciotte.
È abbastanza curioso che Smith adotti
sempre il “taglio” in quattro movimenti,
anche nel caso dantesco, che sarebbe
invece di sua natura trino (il
“problema” viene risolto introducendo
un’Ascensione tra Purgatorio e
Paradiso).
Il romanzo di Cervantes propone un
compito quasi impossibile: quello di
dare una veste musicale all’insieme
contraddittorio di ironia, affetto e
“grandiosità” ispanica che l’autore ha
riservato alla sua creatura. Tuttavia, a
differenza di Omero e Dante, ha il
vantaggio di suggerire un preciso
“colore musicale” (quanta musica
“spagnola” è stata scritta da autori che
… non ne parlavano la lingua!). E così
il primo movimento della Sinfonia n. 3
illustra la “ricerca” ("quest" è la
“parola chiave” all’inizio di tutte le
storie d’avventura) con un sapore
spiccatamente spagnolo: mescolando
tecniche classiche e contemporanee, il
compositore ci offre un racconto sonoro
dell’ostinato e sognatore gentiluomo
della Mancia che prende lancia e spada
in difesa, così pensa, dei deboli contro
i prepotenti.
Il tempo lento è dedicato alla
descrizione della “dama” Dulcinea del
Toboso (la contadinotta Aldonza
Lorenzo), personaggio al centro
dell’immaginario dell’hidalgo ma che non
compare mai nel romanzo: quindi, come
meglio rappresentarla, se non con un
tema musicale magari più vicino ai
giardini di Aranjuez che alla brulla
Mancia?
Sancio e i mulini a vento è invece lo
“scherzo”, contrapponendo la figura
tondeggiante (e potrebbe essere
altrimenti per uno che si chiama Panza?)
del fedele scudiero, impersonato dal
fagotto, alle smisurate e
roteanti braccia dei giganti (che sono
mulini a vento “solo per chi non si
intende di avventura”).
Alla fine della storia, Don Chisciotte,
sconfitto in duello dal Cavaliere della
bianca luna (il “baccelliere” Sansone
Carrasco), “rivede la luce” e
rinsavisce: però le storie d’avventura
(quelle che non prevedono come
conclusione il matrimonio dei
protagonisti!) non finiscono mai
veramente perché i loro personaggi
sfuggono all’autore, restando aperti
alla fantasia dei lettori di ogni epoca.
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Disponibilità del progetto: da
aprile
2012.
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